STORYTELLING
SOGNATORE È UN UOMO CON I PIEDI FORTEMENTE APPOGGIATI SULLE NUVOLE
- Ennio Flaiano -


Stefano, il nome di mio padre. Sono nato in un piccolo paese sui monti aquilani, Acciano. Tutta pietra, asini, odore di pecore, vino e pane caldo. La scia di una stella accoccolata ai piedi del monte Sirente, nella vallata imbevuta di sole. Il sacro padre di roccia si staglia verso il cielo, un profilo frastagliato di labbra morse dal freddo; sfila le sue vette laconiche, sovrasta la vallata, la sorveglia come la sua grande culla. Da lì sopra infonde nello sguardo e nelle viscere dei suoi figli una linfa rude e forte. Nelle notti solitarie maledirai quella barriera di ghiaccio che ti separa dal mondo, e il freddo che arranca e ti solletica i piedi; il campanile frusta sulla pelle un tempo lento, fermo. E amerai il sole che non si stanca mai; il cielo terso, esatto – è un campo di genziane di notte, quando il buio pesto inghiotte la montagna e il cielo si accende, diventa terra azzurra, lunare, e si fa più chiaro quando tocca la pietra. Amerai, e misurerai i tuoi passi sulla paura delle serpi e dei lupi. Le viti intrecciate ti nasconderanno il cielo. Conoscerai le querce, i faggi, le betulle dalle cortecce prima che dalle foglie; i vicoli invece dall’odore di mosto, e di legna bruciata ad ottobre. Ma meglio conoscerai i sentieri battuti attraverso i boschi su per le montagne: al tuo passo incerto la terra pulserà col tuo cuore; gonfierai i polmoni, e sentirai la terra salire e vibrare per tutto il corpo insieme al tuo respiro. Le tracce più nascoste si apriranno come pepite sotto gli occhi di cercatori d’oro: con le narici in fremito e le orecchie affilate di un segugio, tu insegui quei sentieri! – scivolano ai tuoi piedi come veli di spose in fuga. Geloso del segreto, sarai spirito fedele del bosco e di quei compagni sconosciuti che prima di te l’hanno attraversato.


Subito ne balza fuori un Topolino gigante, che sorride sul paracamino. Avevo dato vita al topo di quei fumetti che leggevo instancabile in cucina in mezzo al borbottio del sugo di carne. Il mio Topolino, smagliante fra pinza e paletta, mi racconta di incredibili avventure, mi prende nel suo caldo guantone e, a bordo della scopetta incenerita, mi porta lontano, lontano dalle rocce di un solo colore, lontano dalla perla nera che scintilla negli occhi di mia madre alla nostalgia del suo uomo, lontano dalle urla dei maiali giù per le strade a dicembre, dagli sciami di fazzoletti scuri fuori la chiesa, dai vecchi in piazza che, coppola sulla testa, si ancorano alla vita col tresette, la briscola e il dopobarba alla menta.
Alla scuola media, il primo riconoscimento pubblico, poi un secondo. Un vento caldo, di terra arsa, il vento solitario delle tre nei pomeriggi d’estate, quando le donne e i vecchi, incupiti, sono rintanati nelle case, le cucine già rassettate, e solo la ginestra fruscia di tanto in tanto, solo il vento è il padrone della terra: mi avvinghia alle caviglie e, giocando alla carriola, mi spinge fuori da quella traballante tavolozza che è il mio spirito in fremito. Il mio disegno di uno zoo viene lodato a gran voce dal professore e ricevuto di aula in aula per tutto l’istituto. I ragazzi sgranano gli occhi cisposi alla vista di quello strano posto, dove non ci sono pecore e asini a brucare pigramente l’erba e a scalciare, ma mostri enormi e a strisce con grosse zanne chiusi in gabbie di ferro. Lo avevo visto in uno dei numeri di Selezione, la rivista americana di attualità a cui mio nonno era abbonato. Con un balzo le mie mirabili creature finiscono subito a popolare le più oscure fantasticherie.



Qualche cinghiale grufola nella terra alle mie spalle. Non c’è bisogno di aver paura. È quasi sabato. Mia nonna avvolge le lunghe trecce in un mazzolino di rose sulla nuca, e canta di campagnole innamorate; le guance ancora fiorite dei pupi, ma gli occhi dietro la nebbia non luccicano più. Canta, e con le mani tremule, conserte, piange la sua dolcezza. A mente conta i giorni fino a Santa Petronilla. Nel camino le patate cuociono lente sotto al coppo. Il rosmarino solletica l’aria. Io invece batto i piedi e faccio a pugni col tempo, muoio sotto l’attesa e il desiderio. Quella luna flaccida. Ho gettato al fuoco la mia chitarra per salvarmi la pelle. È quasi sabato: aspetto la hit di musica alla radio e il nuovo disco dei Rolling Stones. Intanto nel bar sorseggio batida de coco, e gioco un po’ con le donne brasiliane su quel fondo di latte, e penso che i loro uomini mai conosceranno il sapore di terra aspra che rantola giù nella gola da un bicchierino di genziana.
Al volo risalgo sul treno: gli anni dell’università stavolta mi portano a Roma. L’arte incendia le chiese, batte nelle strade, un brulichio di strade mostruose in cui mi aggiro ammaliato e perduto. Esplode nelle particelle dell’aria. Fremo sotto a quel fiammifero che si accende sulla mia pelle. A Roma incontro Schifano e Arman: una rabbia tempestosa di colori scende giù sfilacciata come sangue; montagne di violini, di scarpe, chiavi, cucchiai mi cadono addosso. Sono mani ruvide che mi schiaffeggiano, mi raschiano i visceri, e mi insegnano un po’ di me stesso; e che c’è un altro modo di parlare, un altro modo di pensare, di guardare, un altro modo per urlare. La rivoluzione che mi pulsa nelle vene.


Il tempo. Il tempo si riveste di colpo della sua immobilità. Adesso la scopro calda, e buona. Adesso che non sono più un bimbo che scalcia impaziente seduto sulle scalette di pietra fuori casa, crucciato davanti ai monti, avido di vita. Adesso che soffoco sotto il dolore più nero e l’impietosa frenesia. Eppure l’orologio batte, batte più veloce di prima, batte più veloce del cuore dell’uomo e dell’aquila; mi agguanta alla gola, mi tira per i capelli, mi trascina violento, ma io non mi muovo. Fermatelo! Fermatevi!! Afferro i colori, guardo fisso il tempo davanti a me, ipnotico, vorticoso come un mulino a vento che divora la vita; brandisco la mia arma rovente, io tutto sono una pietra focaia, miro al cuore del tempo chiuso in gabbia e sparo. L’orologio si ferma, e io comincio a muovermi. L’orologio si frantuma in mille pezzi, e il tempo comincia a muoversi. L’animale è balzato feroce fuori dal cuore. Il Sirente sfreccia con le sue guglie argentate verso il cielo. E io, colori alle mani, io adesso sono l’aquila che strilla.
scritto da Caterina Di Loreto
caterinadiloreto@gmail.com
Storytelling pubblicato da: Atlante dell'Arte Contemporanea - edito De Agostini - 2020
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